CasaOz è una casa che accoglie i bambini e le famiglie che incontrano la malattia. Offre un sostegno concreto. Offre ospitalità nelle ResidenzeOz, il supporto di educatori professionali e volontari, lavoro nei MagazziniOz.
L’Associazione CasaOz Onlus nasce nel 2005 per aiutare le famiglie con un bambino malato e nel 2007 il Comune di Torino gli da una casa, presso il Villaggio Olimpico prima di trasferirsi nel 2010 nella nuova sede di Corso Moncalieri 262. Ha da poco compiuto dieci anni, si è data una nuova veste, scegliendo il font inclusivo EasyReading per essere comprensibile da tutti e per parlare a tutti. Abbiamo incontrato il presidente Enrica Baricco.
CasaOz compie dieci anni. Facciamo un bilancio?
Ripenso alle prime settimane, non entrava nessuno da quella porta. Era un progetto utile, messo in piedi da quattro amici tra mille difficoltà, in primis far comprendere e comunicare la nostra utilità. A distanza di dieci anni i numeri sono lievitati e nonostante la sede inaugurata nel 2010 fosse grande oggi servirebbe più spazio. Nei miei ricordi indelebili le battaglie fatte per riuscire ad essere utile a quelle famiglie.
Facciamo un passo indietro. Cosa è CasaOz? E cosa rappresenta CasaOz per Enrica Baricco?
È una casa diurna aperta a bambini malati, dagli 8 ai 18 ma anche oltre, e alle loro famiglie. Prova a riportare la normalità nella vita di quelle persone che devono fare i conti con la malattia. È una risposta data sul territorio a ragazzi malati che in realtà arrivano da tutto il mondo.
Per Enrica, CasaOz è un flash di una storia a lieto fine, nata con la malattia diagnosticata a mia figlia che diventa desiderio di ribaltare un caos che in qualche modo mi aveva colpito in modo così doloroso seppure non in modo indelebile. Ho provato a guardare quel dolore sotto un altro profilo perché nel frattempo ho avuto il privilegio enorme di vedere mia figlia guarire. Il dolore spesso genera cose produttive.
L’Italia e il volontariato, a che punto siamo?
L’Italia è un luogo di enorme generosità. I nostri fondi, la nostra forza sono i volontari, più di cento che ogni settimana dedicano il loro tempo, il bene più prezioso che abbiamo, alla nostra Associazione. Di persone generose ce ne sono tante, capaci di sostenere a piene mani la Onlus ma non basta il volontariato serve la professionalità di chi è stato formato per affrontare certe situazioni, assistenti sociali, educatori. Parliamo di una simbiosi che nasce dall’incontro di più fattori.
Istituzioni e politica, privato e sociale come riuscite a far convivere tutti questi aspetti della stessa medaglia?
Sono soggetti e parti della nostra società che convergono nel momento in cui entra in ballo l’interesse comune nel voler aiutare le persone in difficoltà. Parliamo di un problema sociale che l’istituzione non può fare a meno di sostenere e anzi dovrebbe farsi garante, controllando, fissando paletti, monitorando la professionalità e il lavoro che c’è dietro le singole azioni rivolte al sociale, che non fa utile ma è utile.
Come si cercano dei fondi in un paese con cosi tanta disoccupazione e male di vivere?
Si cercano nel privato, nelle Fondazioni, si portano le aziende “profit” a pensare al “no profit” facendo capire loro che la responsabilità sociale è un dato da tenere in considerazione, aspetto per il quale siamo molto indietro nel nostro paese rispetto ai paesi anglosassoni. L’ago della bilancia sarà sempre la sensibilizzazione e per vederla fiorire occorre lavorare tanto.
C’è un ricordo, un bambino, una madre, una storia che più di altre l’hanno colpita e che vuole condividere in qualche modo con noi?
Il primo ragazzo che varcò quella porta. È ancora con noi per le feste di compleanno, è diventato maggiorenne con noi ed è un nostro socio onorario. Lui è la nostra storia, è la malattia che lascia segni, nella mobilità, che condiziona la vita. Dietro la sua vita e le sue scelte c’è tanto del nostro agire perché la malattia, certe malattie, quando arrivano non le puoi più risolvere.
E poi ricordo una ragazza arrivata dal Venezuela con una leucemia molto grave: abbiamo condiviso insieme un pezzo di vita, la sento ancora e sento anche la sua mamma. Forse alle volte si invertono i ruoli, siamo noi ad avere bisogno di loro e del loro passaggio, per dare un senso a ciò che spesso un senso non ce l’ha.
Negli anni è poi nato Magazzini Oz, la cooperativa. È un format che potrà essere esportato in altre città italiane?
Certo. Anche in quel caso abbiamo deciso di metterci in gioco senza stare lì a lamentarci del fatto che i finanziamenti alla nostra Onlus non fossero sufficienti. Abbiamo messo sul tavolo un’idea, abbiamo provato a dare visibilità alla nostra Associazione forse perché è l’unico modo che conosciamo per arrivare alla gente. Chiaro che il sociale deve trovare nuove strade ed è con queste premesse che abbiamo deciso di mettere in campo un fratello di CasaOz, con una faccia sociale. È vincente pensare qualcosa che culturalmente e anche socialmente ha un senso anche se non è facile far capire alle persone che se fai un qualcosa che è commerciale può comunque conservare il suo impegno sociale. La qualità del cibo che trovate ai Magazzini Oz è pari o superiore a realtà con lo stesso fine ma che di sociale non hanno nulla. Si cade sempre nell’errore di pensare che il sociale appartenga ad una qualità inferiore: cambiamo questa mentalità.
Suo fratello, Alessandro, tanto seguito e stimato non solo a Torino, che consigli le ha dato negli anni per meglio affrontare le difficoltà che forse più a livello burocratico che pratico si è trovata davanti?
Le difficoltà che la vita ti costringe ad affrontare ti portano anche a sviluppare una forza che non credevi di avere. Alessandro è stato molto vicino, soprattutto durante i primi passi di Casa Oz. In quel periodo scrisse “Questa storia”, uscito in libreria l’11 novembre 2005 e nelle sue note la motivazione del perché parte dei diritti di quel libro sarebbero andati alla nostra Associazione: ”Io, di mio, preferirei non saperlo neanche che esistono bambini malati gravemente, è una cosa che mi fa una paura orrenda, ma tra i fondatori di Casa Oz c’è mia sorella, lei c’è passata da quel problema”. Queste le parole che ha usato. Si è fidato non perché fossi sua sorella o per lo meno non solo per quel motivo ma perché parlavo di qualcosa che avevo vissuto sulla mia pelle. Le cose che nascono dall’esperienza diretta le conosci meglio e ne intercetti prima i punti critici.
La dislessia e EasyReading: come ci siete arrivati?
Lavorando al nuovo sito con i ragazzi di Giusti Eventi. Il nostro progetto vuole abbattere le barriere, un po’ come EasyReading. È un font pensato per chi ha delle difficolta ecco perché abbiamo deciso di abbracciare il loro progetto, perché come noi meritano di essere comunicati. Ha un senso come strumento, da usare soprattutto ma non solo nelle scuole: non c’è un motivo per non adottarlo.
Per quali delle vostre pubblicazioni userete il font inclusivo?
Spero per tutto. Ci informeremo per capire come rendere insieme la comunicazione più efficace. È faticoso comunicare certe cose, a Torino non tutti ci conoscono e non tutti conoscono EasyReading. Usiamo il passaparola per colpire le persone al cuore, portiamole a conoscenza di quanta bellezza ci circonda.
Qual è la direzione che prenderete in un futuro prossimo?
Abbiamo non un’idea in ballo ma un baule di idee, serve solo la forza per realizzarle. La scommessa maggiore sarebbe quella di riuscire a costruire una autonomia di CasaOz che duri negli anni e che ci permetta di aprire le porte a più persone. Non è facile ad oggi perché ogni anno ricominciamo dal principio. Se devo tirare fuori un sogno vorrei contribuire attivamente a dare autonomia ai ragazzi con disabilità. Permettergli di vivere una vita normale, glielo deve la società, parliamo di una vita dignitosa che deve essergli garantita anche quando non avranno più dei genitori vicino a prendersi cura di loro. Permettere una vita normale a questi ragazzi vuol dire pensare anche l’abitabilità dal loro punto di vista e in questo caso scende in campo il mio lato professionale e l’essere architetto da anni. Alle volte basta far partire la scintilla.
È felice?
Direi di si. Un po’ affaticata ma è la vita.